Il testo di
Tonino Guerra suggerisce diverse riflessioni, che meglio ci aiutano a comprendere le motivazioni di chi utilizza il dialetto, per esprimere emozioni. La prima e più lampante è che, in questo caso, si tratta di una poesia. Un testo struggente che racconta una tragedia seguita da una rinascita: la fame, la sofferenza e il terrore verso un destino di una prigionia atroce, contrapposti alla grazia, alla leggerezza e alla libertà della farfalla, che Tonino, da prigioniero, non invidiava per la possibilità di muoversi fuori dal campo di concentramento, ma desiderava mangiarla. Il tutto scritto in forma poetica, addirittura in dialetto romagnolo.
Se osserviamo le parole senza unirle nell'armonia del testo, troviamo lemmi tronchi, contratti, spesso privati delle vocali, che sono tipicamente deputate ad ammorbidire i suoni.
Eppure è poesia, non certo sminuita dall'utilizzo del dialetto stesso.
L'unione di due forme espressive apparentemente tanto diverse, può farci sospettare che così differenti non siano. Se la poesia ha, tra le proprie caratteristiche, anche quella di saper sintetizzare stati d'animo e di far esplodere tantissime immagini dentro a poche parole, il dialetto romagnolo, altro non fa che ridurre al minimo necessario ogni singolo termine, sollecitando la mente a esplorare il significato profondo di un aggettivo, un avverbio o di una breve frase.
Alcuni dialetti sono considerati particolarmente armonici e per questo trovano più facile applicazione nel mondo artistico, in particolar modo nella canzone. Il napoletano e il romanesco sono gli esempi che più facilmente ricordiamo. Uno dei motivi è che al sud, là dove noi tronchiamo, loro raddoppiano: “quando-quand-quanno, mondo-mond-monno”.
Sostituire una consonante, raddoppiando quella precedente, probabilmente favorisce la musicalità arrotondando il suono, mentre enfatizza il termine stesso. La ricerca di sintesi romagnola invece, invita alla riflessione e si sposa perfettamente con l'anima della poesia.
C'è poi un elemento più antico che scava nella memoria e ci riporta dentro a valori non immediatamente percettibili, ma non per questo meno presenti. Il dialetto romagnolo e in particolar modo quello riminese, partono dal latino volgare, pescano nelle nostre radici più profonde stimolando sensazioni primarie. È una lingua che ha un contatto forte con la terra, scevra di fronzoli, cruda e poco incline all'imbroglio.
“Focum-fuoco-fog o fùg, apertum-aperto-vert”.
Si accorcia, si tronca fino a rendere alcuni termini più simili al francese che all'italiano.
“Vert” in francese diventa “ouvert”. Una dimostrazione di come facilmente le lingue possano condividere percorsi. Se tornate alla poesia che è scritta nel dialetto usato a nord di Rimini, leggerete “voita-vita”, dittongo che nel riminese non esiste, perché la città romagnola è il punto di unione delle linee “isoglosse” che partono da La Spezia e arrivano proprio a Rimini. Tratti di confine che i linguisti utilizzano per indicare i luoghi dove la lingua è rimasta pura, difendendone l'origine da tentativi di contaminazioni.
Tutto questo può far nascere qualche curiosità e la voglia di approfondire la ricerca, ma spiega anche perché, quando uno scrittore o un poeta, scavano nel proprio animo, non è inusuale che peschino suggestioni dialettali, se questa modalità espressiva ha accompagnato la loro infanzia.
Non tragga in inganno l'idea che le opere dialettali siano testi minori, hanno ampiamente dimostrato il contrario artisti come
De Filippo,
Trilussa e
Gilberto Govi, tanto per citarne alcuni che vanno dalla Campania alla Liguria.
Negli Stati Uniti
Amarcord viene studiato in lingua originale, proprio per i contenuti dialettali che difficilmente possono essere tradotti senza perdere efficacia.
Il talento narrativo di Tonino Guerra e l'origine contadina, hanno generato liriche piene di umanità e calore per gli ultimi, unito a una sapienza psicologica intuitiva e fulminante. Basta poco per comprenderlo: “
E fiom le' l'acqua cla porta a spass e zil”. “
Il fiume è acqua che porta a spasso il cielo”.
“In qualsiasi caso” si dice “tanimodi”, uno dei tantissimi esempi in cui il dialetto sintetizza, arricchendo di musicalità un'espressione. “Mi sembri decisamente fuori forma” si traduce con “ruznid-arrugginito”. Una singola parola che evoca un colore autunnale, un materiale freddo e rigido, qualcosa che danneggia.
È la forza del dialetto, la sua vicinanza alla poesia, quella più estrema, l'ermetismo di chi con l'esempio di una foglia ha saputo rievocare la paura dell'uomo.
Stefano Baldazzi