Le persone che partecipano quanto si mettono in gioco e come vivono emotivamente il laboratorio?
All’inizio di ogni laboratorio le partecipanti (nei laboratori da me condotti, per scelta, erano aperti a solo donne, italiane o straniere) sono sempre state invitate a scegliere il grado e l’intensità della partecipazione. L’unica richiesta è quella di usare la scrittura. Quando poi il laboratorio procede le partecipanti si confrontano con diversi stati d’animo: inizialmente si respira una aria di curiosità, piacere, sorpresa, nostalgia nel riportare alla luce i ricordi più lontani (così detti di radice), poi man mano che la scrittura procede verso la ricostruzione del proprio percorso esistenziale si vive la fatica, la frustrazione, il senso di incompiutezza, forse anche la noia di non riuscire ad afferrare appieno i fili d’oro della propria esistenza e dare loro una trama significativa. Possono inoltre emergere inaspettatamente ricordi rimossi, inenarrabili. In questi casi si dispiega la forza accudente del gruppo che interagisce e compartecipa intensamente.
Ritieni che la scrittura autobiografica abbia un valore terapeutico e in quali termini?
Ho sempre evitato il termine terapeutico applicato alla scrittura autobiografica, anche perché io non ho una formazione da terapeuta. Però ho sperimentato, prima su di me, che la scrittura apre uno spazio alla cura di sé molto intenso. Non solo perché una persona decide di dedicare ore del proprio tempo a coltivare la sua pensosità. Ma anche perché il contesto che si genera nei laboratori è accudente, così come la relazione che si instaura fra chi conduce e chi partecipa e fra le partecipanti stesse. La cura della relazione diventa relazione che cura. Inoltre chi si cimenta con scrittura autobiografica sperimenta rigore e metodo e questi aspetti possono giovare a chi è in ricerca di un equilibrio e di un maggior controllo emotivo.
E il ruolo di chi conduce il workshop cosa comporta?
Comporta mettere in campo tanti saperi, sensibilità ma mai predominare sul gruppo. Semmai accompagnarlo, con vari stili di guida. Occorre rigore metodologico già in fase di progettazione quando si dedica molta attenzione alla ricerca dei giusti stimoli alla scrittura (testi, immagini, musiche, oggetti, etc.) Poi occorre molta attenzione affinchè le partecipanti acquisiscano un metodo che le porti verso la meta desiderata. Il mio ruolo di conduttrice lo vivo anche nell’ascolto del racconto altrui, nel rispettare i tempi di ognuna e nel mantenere vivo e partecipe il gruppo.
Io amo lavorare in piccolo gruppo, composto da massimo 6-7 persone. Oltre a questo numero per me si riduce lo spazio di interazione. Ma anche se il numero è più basso è controproducente perché si riduce la ricchezza e la diversità degli apporti e degli stili. Molto importante è la costante partecipazione di ognuna, incontro dopo incontro. Il gruppo di scrittura si sostiene a tal punto che ogni assenza richiede una riformulazione dello stare insieme. Un'altra sfida, dunque, per chi conduce è lasciare la voglia di rincontrarsi la settimana successiva.
Nei tuoi corsi di scrittura autobiografica tu inserisci il lavoro con le immagini. Qual'è il percorso che si va a fare?
L’immagine è un dispositivo molto usato in ogni laboratorio di scrittura autobiografica e in altri contesti di apprendimento. Ciò che vediamo precede l’azione, ciò che osserviamo genera un pensiero, innesca riflessione. Suscita ricordi ed emozioni. Nel laboratorio
Autoritratto promosso da No Limits to FLy aps e condotto negli spazi della galleria d’arte riminese, le immagini entrano a pieno titolo e guidano il laboratorio nelle sue tappe principali. Le immagini sono testi visivi, che si intrecciano con la storia di ogni partecipante e ne divengono parte costitutiva. Attraverso la scrittura emergerà la componente relazionale che lega ognuno alle immagini a cui è più affezionato o le scopre come tali. Con la scrittura verrà portato a galla il loro significato affettivo e identitario.
Partiamo dal raccogliere immagini care ad ogni partecipante in genere fotografie di famiglia, foto personali nelle diverse età della vita. Stimolando però una osservazione meno consueta e abituale. Ad esempio prendendo in considerazione elementi delle foto/immagini considerati marginali e privi di sostanza. Ci si esercita, fra immagini e scrittura a costruire, decostruire, cancellare, introdurre. Ci si dispone a scoperte inedite. Si procede poi verso una personale autorappresentazione nella quale ognuno possa riconoscere e vedere riconosciuta una storia di sé più ricca, più articolata, più vicina all’idea attuale di sé stessi.
I corsi di autobiografia spuntano come funghi. È maggiore la voglia di raccontarsi, di fare i conti col proprio vissuto o di condividere le proprie esperienze?
Non saprei con certezza….nei laboratori da me condotti ho sempre chiesto un incontro preliminare con ognuna delle interessate. Per conoscerci e affidarsi reciprocamente, per esplicitare le proprie attese e o per dissipare eventuali timori o illusioni. Chiarisco che il laboratorio è una occasione di scoperta, apertura verso una più ampia conoscenza di sé. Molto gratificante ma impegnativa. Cosa succede in un laboratorio non si riesce descrivere pienamente. Si fa facendolo. La persona deve sentire un bisogno o un desiderio, sentirsi sospinta, al cercare dentro di sé, da un po’ di inquietudine esistenziale e accogliere l’imprevisto.
Consigli per chi desidera partecipare?
Serve veramente poco, giusto l’essenziale: una penna, un quaderno e … una vita
Grazie Fulvia, alla prossima chiacchierata.