Passò il tempo, i giorni e le notti. Passò perfino il lockdown, quello rigoroso delle porte sprangate e quasi m'ero dimenticato del concorso a cui avevo partecipato, anche se in fondo all'abisso, l'altro me, il depresso, era inquieto, una volta tanto. Poi una domenica di fronte a un cielo barocco di nuvole spesse e profonde lessi la mail. Ero stato selezionato. Ero tra i finalisti. Vittoria. Questo già mi bastava.
E fu strano, straniante. Come la stessa parola che forse pronuncio male: “in streaming”. Nell'etere le nostre facce finaliste in piccoli riquadri fatti su misura. Ed io nella mia stanza, provavo la luce del pomeriggio. Seduto davanti a una cornice luminosa che conteneva stretti stretti i nostri volti.
Bevendo una birretta di nascosto, fuori dall'inquadratura, così, per darmi un tono. Ma era solo sudore. Il caldo era faticoso. Era solo giugno, ma pareva agosto. La finestra aperta alitava ardente sulle mie spalle.
Iniziò la finale virtuale. La prima della mia vita virtuale.
La prima in assoluto, fatta in carne e ossa, la feci l'anno passato, nel meraviglioso borgo di
Lugnano in Teverina, davanti a sguardi, curiosi e attenti. Il mio cuore batteva all'impazzata. Allora fu bello, bello assai. Quest'altra volta, l'ho già detto, fu strano, non trovo altra parola per descriverlo.
Fui l'ultimo a leggere l'incipit del racconto e a spiegare brevemente i motivi che mi avevano spinto a scriverlo. Nonostante fossi da solo nella stanza, le parole mi uscivano a stento. Ero molto emozionato comunque.
Non vinsi e un po' ci rimasi male, umanamente. Ma ugualmente, quell'esperienza mi diede la spinta a continuare a scrivere. La mia autostima ne uscì rafforzata.
Così, a fior di labbra, posso solo dare un consiglio: scrivete e partecipate ai concorsi, mettetevi in gioco. È bello, a volte, essere riconosciuti per quello che avete dentro.
Luca Santoro
Foto: Toa Heftiba, Laura Chouette, Tom Holmes on Unsplash