Nella mia ingenuità, io la lezione di Tabucchi l’ho sposata quasi 35 anni fa; è dall’età di 17 anni che compilo, con certosina pazienza, la cronaca della mia esistenza, per scongiurare il rischio che ciò che sono stata, ho pensato, ho sperimentato, diventi fantasma. Non è un’operazione letteraria in senso stretto, a nessuno – tranne che a me – potrebbero interessare i miei deliri del passato; tuttavia non è neanche solo pura biografia. Rileggere un vecchio pensiero può essermi di aiuto nell’attribuirne uno nuovo a un personaggio, così come le miriadi di citazioni da romanzi, poesie, articoli di giornale, sono nutrimento per la creatività che segna il passo, o per l’umore che si fa uggioso. Se le parole sono la pozione che tutto può guarire, un buon diario è il calderone dove si mescolano gli ingredienti.
Ho precedenti celebri, il che mi fa sentire, di riflesso, ammantata di fascino.
Bruce Chatwin sosteneva, nella sua opera
Le vie dei canti che perdere il passaporto era l’ultima delle sue preoccupazioni, mentre perdere il taccuino era una catastrofe. Era nelle famose moleskine che lui raccoglieva le sue impressioni di viaggio. Narra la leggenda che fu lui a regalare una moleskine al suo amico Luis Sepùlveda, in occasione della partenza per la Patagonia. Senza il taccuino di Chatwin avremmo avuto ugualmente un
Patagonia Express da leggere? Sicuramente sì, ma di certo quel quadernetto con la copertina nera avrà fatto la sua parte.
Anch’io ho avuto una moleskine, perché non sei scrittrice se non ne bazzichi almeno una, nella vita, ma di regola preferisco quaderni più allegri e colorati. Mi aiutano a non prendermi troppo sul serio. Quelli ad anelli sono comodi nel caso in cui ci si voglia disfare di qualche pensiero mal riuscito senza troppi rimorsi; hanno però il difetto di essere scomodi, con il cilindro di plastica su cui il polso finisce per incespicare. Amo la carta un po’ spessa, perché scrivo prevalentemente con la stilografica, e preferisco le righe ai quadretti.