“Scrivere non c'entra niente col fare soldi, diventare famoso, crearsi occasioni galanti, agganciare una scopata o stringere amicizie. Alla fine è soprattutto un modo per arricchire la vita di coloro che leggeranno i tuoi lavori e arricchire al contempo la propria. Scrivere è tirarsi su, mettersi a posto e stare bene. Darsi felicità, va bene? Darsi felicità”.
Questo è quello che spiega Stephen King nel suo
On writing edito in Italia da Sperling & Kupfer nella traduzione di Tullio Dobner. Credo che la sua sia una voce autorevole: King ha raggiunto fama, ricchezza, riconoscimenti di ogni tipo, e se la molla fosse stata solo questa, avrebbe potuto smettere e dedicarsi alla propria fortuna. Il fatto che continui a scrivere, ci dimostra che non è ancora pago di darsi felicità. E ringraziamo la sorte: sarebbe una grande perdita, per noi lettori.
Intervistati sull’argomento, è probabile che ogni poeta, romanziere, filosofo, darebbe una risposta diversa. Esistono tante motivazioni quanti sono i modi di raccontare, che è come dire infinite. Alcune potrebbero anche essere diverse da quella di King, e avere comunque la medesima dignità.
Per quanto riguarda me, posso dire che arrivare a scrivere un romanzo, è stato un atto di consapevolezza e fiducia.
Uscivo da un periodo emotivamente complesso: situazioni familiari e lavorative mi avevano portata ad affacciarmi sul baratro della disperazione e a trovarlo persino interessante. Mi sembrava di vivere dentro la prima legge di Murphy: “se qualcosa può andare male, lo farà” e tutto peggiorava, in modo esponenziale. Non sono una donna alfa, mi abbatto con facilità, e la tentazione di lasciar perdere qualsiasi progetto e limitarmi a sopravvivere, è stata forte. Ma c’era la scrittura, e quella non mi permetteva di andare a fondo.
Avevo un racconto, all’epoca. Lo avevo iniziato durante un laboratorio, e sia le compagne che il docente, mi avevano incoraggiata: la storia stava in piedi, i personaggi erano verosimili, perché non provavo a raccontare qualcosa di più?
Iniziò così, con il pensiero che quando ero dentro la storia che narravo non ero in quella che vivevo, e potevo trarre un po’ di ossigeno dall’una per vivere meglio l’altra.
Quando mi sono accorta che riuscivo a creare, nonostante le circostanze non promettenti, ho realizzato che non ero la creatura indifesa di cui volevo convincermi all’unico scopo di non mettermi in gioco: perché reagire, si sa, è faticoso, e forse una parte di me quella fatica non avrebbe voluto farla. Invece meritavo fiducia – così mi sono detta – meritavo tanta fiducia da pensare di fare qualcosa che, fino a quel momento, era stato solo un sogno irraggiungibile. Dare uno spazio alla mia narrazione. Darle un tempo. Costruire un romanzo.
Credo nella scrittura come atto terapeutico, e penso che scrivere possa alleviare qualsiasi dolore emotivo. Ma il mio progetto era ancora più ambizioso: scrivere non per guarire, ma per dare universalità alle mie emozioni, perché pensavo – e ne ho avuto prova col tempo – che anche altre persone, partendo da esperienze completamente diverse dalla mia, ci si sarebbero potute riconoscere. Come dice King “arricchire la vita di coloro che leggeranno i tuoi lavori e arricchire al contempo la propria”.
Non è stato facile, non lo è mai quando ti poni un obiettivo a cui tieni tanto. Scrivere, e poi revisionare, correggere, riscrivere; anche adesso, se ci penso, c’è qualche passaggio che se potessi modificare, chissà. Si deve ascoltare il proprio revisore interiore, ma non lasciarlo a briglia sciolta; confrontare ciò che si è detto con ciò che si voleva dire, e capire se e quanto ci si è avvicinati. Avere fiducia nel proprio lavoro, ma guardarlo con occhio disincantato.
E’ come con i figli: arriva il momento in cui capisci che puoi lasciare andare le mani, perché saranno in grado di camminare da soli. In quel momento ho iniziato a pensare che potevo e dovevo cercare un editore. Ma questa è un’altra storia, ve la racconto la prossima volta.
Francesca Mairani
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