« … dapprincipio pensavo che questa banda di intrusi assassinasse i miei momenti più belli e preziosi, invece ho avuto fortuna, fortuna sì. Perché ognuno di loro, uomo o donna, mi ha portato qualcosa e mi ha lasciato qualcosa».
A chi non è mai capitato di sentirsi minacciato dagli sconosciuti con cui condivideva un’esperienza? Questa gente con cui ci si trova gomito a gomito, respirando la stessa aria, ascoltando le stesse parole, a cui ciascuno – però – dà la sua interpretazione. “Banda di intrusi” è una bella definizione, e ci viene da uno che non ha mai brillato per buon carattere: Charles Bukowski, nel suo
Storie di ordinaria follia, pubblicato in Italia da Feltrinelli con traduzione di Simona Viciani.
Non è sempre facile relazionarsi con l’umanità. Ci si trova in mezzo a persone diverse l’una dall’altra e diverse da noi, in un carnevale di aspettative, attitudini, gusti e disgusti. Un errore che facevo, era pensare che se un individuo amava i miei stessi scrittori, allora qualcosa ci univa. Mi è bastato parlare con i compagni del primo corso frequentato, per chi capire che grossolano equivoco fosse.
Tuttavia, come scrive Bukowski, questa varietà mi è servita. Ho provato una gamma vasta e variopinta di emozioni, dal fastidio all’ammirazione, dalla simpatia alla riprovazione, e ciascuna di queste mi è stata utile per acquisire competenze e consapevolezze nuove, nell’ottica che ciò che ci urta è spesso ciò che più ci rappresenta.
Come non sono tutti uguali i lettori, così non lo sono gli scrittori, o gli aspiranti tali. In genere le donne superano numericamente gli uomini, e in questo la spiegazione è banale: siamo più portate a metterci in gioco, viviamo le nostre ispirazioni con meno imbarazzo. Le età sono un criterio trasversale, e per fortuna: mi sono trovata allo stesso tavolo con persone che mi potevano essere genitori e altre che mi potevano essere figli, ed è stato un confronto arricchente per tutti.
Non si pensi, però, che siano tutte rose e fiori; vi sono alcune categorie con le quali è facile scontrarsi e non altrettanto relazionarsi. Per esempio…
IL CORSISTA NATO IMPARATO. Sa già tutto, conosce tutti gli autori citati, sia le produzioni più note, che però disprezza un pochino, sia quelle meno famose, che considera più rappresentative. Interrompe con sollecitudine, pone domande che hanno già implicita la risposta, scuote la testa con un misto di paternalismo e sufficienza alle domande degli altri, si irrita se contraddetto. Riconosce solo l’autorità del relatore (e non sempre), considera i compagni “gente che ha del tempo da perdere”; lo capisci da come si guarda intorno che sta pensando “cosa ci faccio qui?” e questo è l’unico suo pensiero che condividi. Cosa è venuto a fare?
IL CORSISTA ANARCHICO INSURREZIONALISTA. Non fa mai i compiti, e se li fa non segue la consegna. Se il relatore impone dei vincoli di lunghezza o di argomento alla trattazione del testo, lui li ignora, perché deve seguire l’ispirazione e perché i “vincoli uccidono la creatività” (e non immagina quanto si sbagli…). Se viene consigliata la lettura di un testo, lui ne legge un altro perché “gli piace di più”. Al momento della correzione dei testi, contesta il relatore, i compagni, persino se stesso. In genere non arriva alla fine del corso.
IL CORSISTA CHE NON LEGGE. Leggere non è indispensabile, o quanto meno non è indispensabile a lui, perché lui ha il sacro fuoco. Quello è indispensabile! Se gli si fa notare che se tutti ragionassero così, non avrebbe senso neanche scrivere, fa spallucce. Degli altri non si cura; per quanto interessa a lui, Hemingway avrebbe potuto limitarsi a bere e pescare, la Blixen a coltivare caffè a Nairobi, Conrad a condurre navi mercantili britanniche per tutti gli oceani noti e ignoti, con buona pace della letteratura mondiale. Scrive cose noiosissime; per fortuna nessun altro – oltre il relatore – è obbligato a leggerle.
Last but not least, IL CORSISTA CHE NON CI CREDE. Sarebbe anche bravino, ha belle intuizioni, si esprime in modo corretto. Ma non ci crede. Pensa che nessuna delle cose che scrive valga la pena, e il peggio è che obbliga anche te a pensarlo, con i suoi comportamenti. Legge i suoi testi con poco amore, trascina le frasi, appiattisce ogni emozione, tanto che ti verrebbe voglia di strapparglieli di mano e continuare da solo la lettura. Non è modestia, sia ben chiaro, la modestia è una qualità positiva, questo è puro nichilismo. Ricorda coloro che si infliggevano volontariamente ferite per non essere chiamati al fronte. L’autolesionismo, in tempo di guerra, era punito al pari della diserzione. Dovrebbe valere anche per la scrittura.
Francesca Mairani